cinecaffè #5 - I Villeggianti di Valeria Bruni Tedeschi.
Mi è sembrato un omaggio a Fellini, al suo mondo, ai suoi film intrisi di quel continuo divagare tra serio e faceto, reale e onirico, pensieri profondi e immagini tanto surreali quanto magnificamente perfette. Valeria Bruni Tedeschi prende un po' di "Otto e mezzo" e parte proprio da una specie di psicoanalisi sui suoi film e sul suo ruolo da regista, in modo molto auto ironico, per poi tuffarsi immediatamente in una disperazione adolescenziale per un amore finito di cui non si capacita e, nel giro di pochi minuti, trasferisce la protagonista in un luogo immobile nel tempo, dove una carrellata di personaggi variopinti si palesano allo spettatore come ultimo baluardo di una decadente borghesia e della sua acciaccata e disperata servitù.
Ci sono proprio tutti: la matrona portata in giro su una specie di scranno come fosse una antica regina, l'anziana madre che tenta di ingannare l'età suonando il pianoforte con l'artrosi alle mani e ricercando in un bacio il sapore dei tempi perduti, l'industriale fallito con il suo viscido leccapiedi, la sorella, una magnifica e superba Valeria Golino, che assopisce nell'alcol la colpa di un bambino mai avuto perché lei aveva scelto il momento sbagliato, l'amico invisibile che diventa visibile solo quando si pensa sia morto, il fratello morto per davvero che invece sembra vivo grazie al suo spirito che si aggira per la casa, la sceneggiatrice di sinistra che ha difficoltà a fare pace con la destra, una bambina di colore adottata che è l'unica con un po' di senno in zucca, perchè non corrotta dalla vita, e suo padre che si innamora della ragazza di un cartellone pubblicitario Lise Chermel.
Poi c'è lei, Anna, interpretata da Valeria Bruni Tedeschi, il ritratto perfetto della donna isterica, fragile, pazza, psicopatica, forse un tantino sopra le righe, perché va bene che alcune donne sembrano continuamente in fase premestruale, ma addirittura rompere un vetro con una gomitata lo trovo un po' eccessivo. Comunque ci descrive estremamente psicolabili e così lei stessa si descrive: perché questo, come i film di Fellini, ha un racconto autobiografico.
La sfilata di personaggi pittoreschi non è comunque finita, c'è ancora tutta la servitù: il maggiordomo beone e disincantato, il giovane inconcludente, il vigilante romantico, il cuoco rubacuori, la donna di servizio affezionata alla famiglia, l'altra claudicante e assai meno innamorata del proprio lavoro, disperata per il marito affetto da Alzheimer, malattia che, seppur comparendo in pochi momenti del film, viene tratteggiata in modo preciso ed estremamente sincero dalla regista.
Tutta questa ciurma di improbabili quanto decadenti e tristi personaggi danno vita a momenti di esilarante follia, specchio di una triste e veritiera realtà dell'esistenza umana, come la Golino che va in fissa per una vecchia pubblicità della Peroni, la processione per lo spargimento delle ceneri di un'amica, le risate di un pubblico inesistente, una donna che tinge le sopracciglia al marito, il vecchio giardiniere che si scava la buca, ci si sdraia e quando la moglie gli chiede cosa fa, lui risponde: "Mi alleno". Momenti che sono alternati da scene di commovente poesia, come quella del peto a tavola e del cappello portato via dal vento che innescano i ricordi di una fanciullezza passata troppo in fretta.
Valeria Bruni Tedeschi tocca tutti temi possibili, tra cui l'amore, la morte, lo stupro, il cinema, la politica, le classi sociali, persino i migranti e tutti gli stati d'animo umani: la solitudine, il rancore, la gioia, la paura, la tristezza, la rabbia, l'angoscia, l'indifferenza.
Lo spettatore, accompagnato da una colonna sonora che varia dall'armonioso canto delle cicale a quello sguaiato del lirico, dal fragoroso tuono della pioggia all'intensa interpretazione di "Ma che freddo fa", viene travolto da questa specie di schizofrenia di argomenti e sentimenti fino all'epilogo: qui una voce calma, quasi serena, nell'impenetrabile nebbia, pronuncia più volte un nome, ricordando tanto Sylvia, accompagnata dal miagolio di un gatto (usato nel secondo atto del film, se non sbaglio), che cerca Marcello prima di arrivare alla fontana di Trevi ne "La dolce vita".
A parte qualche problema nel doppiaggio, il film ha un cast eccezionale, la regia ci regala una perla come quella del ballo della Golino, e la storia è piuttosto psichedelica, ma molto sincera e in fondo ci pone una domanda: "Si deve rispettare la volontà dei morti. E rispettare quella dei vivi?"
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