Sto con Chef Rubio: l'unto sulla canottiera a me piace.
Ho sempre frequentato le trattorie. Quelle vere, con le gambe dei tavoli che traballano, le sedie di paglia che pesano una quintalata l'una, la perlinatura in finto legno color "marrone non ho più speranza" che arredano la stanza fino a metà parete.
Amo le trattorie. Quelle che quando entri senti il rumore del chiacchiericcio in dialetto stretto incomprensibile misto a tonfi di stoviglie e piatti proveniente da chissà quale angolo nascosto. Ogni tanto il sottofondo musicale armonico e ormai collaudato negli anni, viene interrotto da un soave richiamo: "La lasagna del 10" e poi tutto ricomincia.
Adoro le trattorie. Quelle che il bimbo rugna, la nonna è sorda, la cameriera è splendidamente sciatta e sciabatta con indolenza ma eleganza, il cameriere è burbero ma ha sempre la battuta pronta, alla cassa non ti danno lo scontrino ma la vecchia ricevuta fiscale con la copia carbone e un conto sommario che riporta una cifra simbolica: di solito si aggira intorno ai venti euro.
Sono affascinata dalle trattorie. Quelle in cui il ragù è più prezioso dell'acqua, in cui le porzioni sono fatte su misura per un lottatore di sumo, quelle in cui il brodetto delle cozze si beve se no il cuoco si offende, quelle in cui il pesto alla genovese è di legge accompagnato da patate e fagiolini, altrimenti è un pesto a metà.
Mangio spesso nelle trattorie. Quelle in cui il menù è giornaliero, non esiste una carta dei vini, trovi, a seconda delle stagioni, il cinghiale, la lepre, il cervo, le puntarelle, i carciofi alla giudia e non mancano mai la coda alla vaccinara, le animelle, il timballo, le lasagne, le polpette al sugo, la torta pasqualina, la torta della nonna e il tiramisù.
Se ho una devozione incondizionata per le trattorie vecchia scuola, non si può dire lo stesso per i ristoranti simil chic o simil stellati che vorrebbero essere stellati e non lo sono, fino ad arrivare a quelli da 300 euro per un menù degustazione.
Entrare in quei posti mi mette ansia: prima di tutto c'è il maitre di sala che mi chiede con quello sguardo da professore che cerca di metterti alle strette quando sei alla lavagna, se ho prenotato o no; poi ci sono le tovaglie lunghe fatte apposta per inciamparci e tirare giù tutto il tavolo compresa la sfilza di posate annesse, che neanche il servizio di argento della bisnonna, e tutta la cristalleria che sberluccica come se fossi da Swarovski a Natale. Poi c'è il silenzio, un silenzio che ti sembra già di essere nella tomba, o nella sala d'attesa dello smistamento Inferno, Purgatorio, Paradiso con San Pietro che ascolta alla radiolina la Sonata k.30 per clavicembalo di Domenico Scarlatti. Poi c'è la carta dei vini con prezzi che ti fanno desistere dal bere alcolici e punti su un'acqua frizzante, a patto che non ti facciano pagare a parte le bollicine. Per non parlare del menù: una cartelletta ben rilegata con quattro piatti dentro, ma una sfilza di parole che occupano una facciata intera formato A3 per portata, che con una descrizione così accurata ti vien da pensare se ti devi alzare, andare in cucina e preparartelo tu l'agnello allevato a erba cipollina dell'orto botanico di Monaco, cotto in casseruola di tek dell'Asia medio-occidentale, direttamente dalla nave di Marco Polo, con sentori di pino mediterraneo, quercia canadese, licheni lapponi e rosmarino novello, in riduzione di mirtillo, bacche di goji e liquore dell'Africa sud sahariana importato direttamente dai Tuareg attraverso il deserto, accompagnato da gelatina di zoccolo di gnu e dente di leone, l'animale, non il fiore, cotto a fuoco lento per ventisette ore e quattro minuti, scottato in padella dieci minuti per lato, servito su letto di humus, pistacchi, mandorle, anacardi, noci e noci pecan tritate a freddo con mixer Rowenta per chi non si accontenta, per due minuti e poi ripassate in mortaio di marmo di Carrara bianco per altri dodici minuti, decorato da fiori di campo, fiori di montagna dello Stelvio raccolti dagli stambecchi in persona, stelo di giglio e non ti scordar di me, intanto a fine pasto non ti scorderai nemmeno del conto.
Un vero incubo per ogni persona normale, non avvezza al jet set della Milano in o della Roma politica, per cui già dover prenotare è una stravaganza. Ci avete fatto caso? Quando entrate in una trattoria qualcuno vi ha mai chiesto se avevate la prenotazione? Giuro, a me non è mai successo.
La televisione ha da tempo sdoganato questo tipo di ristorazione, mettendo in bella mostra in svariati programmi chef stellati che giudicano, si arrabbiano, si indignano, di fronte a casalinghe tutte mattarello e olio di gomito, casalinghi impertinenti che si rifiutano di disossare il pollo e bambini, che essendo la nuova generazione, sanno perfettamente cosa sia un consommé e l'alga kombu.
Nel tubo catodico, o meglio dire ex tubo catodico, c'è un personaggio pronto a rincuorare noi plebaglia, amanti del grasso che cola e della sugna: Chef Rubio. Un ragazzotto, bello piazzato 108 kg per 1.86 di altezza, ex rugbista, romanaccio, dai modi burberi, ma sinceri, che sostiene un tipo di cucina un po' più grezzo, verace e di poche parole. Per Rubio contano di più i gesti; addentare con soddisfazione una coscia di pollo, fare la scarpetta nel sugo, succhiare le cozze ripiene, annegare le dita nella zuppa di pesce e imprimere in modo indelebile sulla maglietta la prova della sua soddisfazione: la macchia di unto.
La macchia di unto sulla canottiera è il segno inequivocabile della felicità, della goduria provata senza rimorsi o rimpianti, della libertà di sbrodolarsi in santa pace mentre sei assuefatto dall'arrosto di maiale con patate al forno.
La macchia di unto è sexy e desiderabile per le donne quanto la pancetta dell'uomo, sintomo di una persona che non ti rompe le palle per un cuscinetto in più sul sedere o per un dolce ipercalorico con aggiunta di panna alla fine della cena.
Rubio piace sia per quanto riguarda il cibo, che per la sua schiettezza su alcuni argomenti, temi o personaggi: mi erano già noti alcuni suoi twitter su Salvini, ma ora come si dice dalle mie parti "la tocca piano" andando a rompere le uova al mondo patinato della cucina.
Lo chef non ci gira intorno, va dritto al punto e ne ha un po' per tutti: gli stellati che sembra siano avvezzi alle droghe, i concorrenti dei reality di cucina che trova dei veri stupidi a farsi giudicare sul cibo in tv, il mondo delle star che definisce grottesco, i ristoranti che fregano le persone, Vissani per cui non prova molta stima.
Il ragazzo non fa sconti a nessuno e genera stupore nelle menti dei ben pensanti, tradendo una specie di regola da Fight Club per cui se fai in qualche modo parte di un certo ambiente non ne puoi parlar male: non si sputa nel piatto in cui si mangia (non ho resistito). In barba alle consuetudini, Rubio dice chiaramente quello che pensa e scoperchia un vaso di Pandora, in cui tutti vedono, ma fanno finta di non sapere. Lui non si tira indietro e coraggiosamente si scaglia contro i suoi colleghi, contro la Lega o i politici in generale, contro le ingiustizie. Il suo atteggiamento è da ammirare in un mondo in cui tutti mettiamo una maschera, una copertina patinata sul profilo Facebook, per sembrare orgogliosi di una vita, che generalmente è tutt'altro che rosa e fiori, e felici delle briciole che ci sono state destinate da chi ha governato in questo paese, e nel mondo, fino ad ora.
Per questo apprezzo Rubio, perché con il suo "Unti e bisunti" girava per l'Italia a scovare quelle tradizioni e quegli uomini della tradizione genuini e sinceri che non si fanno travolgere da questa società posticcia e menzognera. Apprezzo Rubio perché con il suo "E' uno sporco lavoro" mostra a noi borghesotti di provincia che esistono lavori impossibili, massacranti, indispensabili, in luoghi impensabili a cui si dedicano con amore e passione migliaia di persone, anche loro ai nostri occhi invisibili quanto la loro reale fatica quotidiana.
Nel frattempo è ripartito "Camionisti in trattoria 3", la domenica sera sul nove alle 21.25 e finalmente potrò godere della cucina esagerata delle trattorie meglio frequentate, cioè quelle frequentate dai camionisti, garanzia assoluta di un lauto pranzo a una modica cifra; nel mio immaginario potrò stare seduta a tavola con Rubio e strafogarmi di pappardelle al sugo di cinghiale tra qualche risata, un bicchiere di buon rosso del contadino e una bella patacca di unto sulla maglietta bianca.
Io sto comunque con Chef Rubio: a me l'unto sulla canottiera piace.
Evviva le trattorie, evviva la libertà di mangiare, macchiare, pensare e dire ciò che si vuole, soprattutto se è la verità!
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