cineretrò con caffè #9: Deserto rosso di Michelangelo Antonioni 1964

L'ho rivisto almeno una decina di volte; ogni volta aggiungo dei tasselli, ma nonostante ciò, ogni volta, credo fermamente che qualcosa continui a sfuggirmi. 

Giuliana vaga per la città deserta, a tratti avvolta da ambientazioni monocolore, che mi riportano agli albori del cinema espressionista; Giuliana vaga con i suoi movimenti imprevedibili tra serpentine di tubi, condutture e tralicci; Giuliana vaga tra i suoi pensieri sconclusionati quanto terribilmente lucidi; vaga nel mare inquieto della sua malattia trasportata da bastimenti carichi delle sue nevrosi. Trova riposo e consolazione nel breve attimo della fantasia di una spiaggia rosa. Tutto il racconto è incentrato su di lei, sul suo "incidente d'auto" e lo shock che non le permette più di ingranare; in realtà sono l'ambiente circostante e i dialoghi, a tratti surreali, che definiscono le riflessioni dello spettatore. Michelangelo Antonioni e Tonino Guerra, sceneggiatori del film, mettono sotto la lente d'ingrandimento la modernità e il progresso dell'epoca, con le annesse problematiche, maledettamente contemporanee quasi sessant'anni dopo. Le riflessioni cominciano dai titoli iniziali in quel ringraziamento "al signor Pietro Tizzoni di Milano per aver messo a disposizione la sua spiaggia rosa a Budelli in Sardegna", per poi continuare nei dialoghi in cui le voci vengono sovrastate dai rumori assordanti dell'industrializzazione: "Si crede nell'umanità..., un po' meno nella giustizia, un po' di più nel progresso", dice l'ingegner Corrado, anche lui, come Giuliana, a suo modo, "vagante". Mentre la prua della modernità avanza inesorabilmente fiancheggiando la piccola baracca instabile, Antonioni esplora la paura ancestrale della malattia sia essa fisica o mentale, per cui la bandiera gialla issata sulla nave innesca, erroneamente, il panico di un'epidemia, il figlio che mente sul suo stato di salute fa sentire a Giuliana male ai capelli e la butta fra le braccia di Corrado, che dice "più o meno siamo tutti da curare". Monica Vitti interpreta magistralmente questa moderna eroina immersa nella sua depressione e cieca ai cambiamenti del mondo "Cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare?", ma che ne percepisce la pericolosità "C'è qualcosa di terribile nella realtà e io non so cos'è, nessuno me lo dice". Lo spettatore moderno è più consapevole di Giuliana delle conseguenze dei fumi di scarico che invadono la scena con violenza per poi ritirarsi e scomparire nel nulla, del simbolismo della nebbia che avvolge le persone fino a cancellarne i volti e di quanto sia sbagliato far giocare Valerio (il figlio) tra i miasmi del terreno dove il fumo "è giallo perché c'è il veleno". Giuliana, che voleva tutto, che non riesce a guardare il mare perché lì tutto si muove e cambia, cerca di essere conforme alla società anche diventando una moglie infedele e nell'ennesimo vagare disperato tenta di scappare, ma non può, perché, come le ha fatto vedere Valerio, non sempre uno più uno fa due: lei non può decidere, "non sono una donna sola... i corpi sono separati: se lei mi punge, lei non soffre". Nel veloce incedere di questa modernità, tutto continua in una consolidata e amara indifferenza: "Andiamo".


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